venerdì 26 dicembre 2008

la storia di Bill.

La storia di Bill

L'atmosfera di guerra era febbrile in quella città della Nuova Inghilterra dove noi, giovani ufficiali di Plattsburg, eravamo acquartierati. Ci sentivamo lusingati quando i notabili del luogo ci invitavano a casa loro, dandoci l'impressione di essere degli eroi. Amore, applausi, guerra: momenti sublimi intervallati da pause di ore liete. Finalmente mi ero lanciato nella vita e, nel bel mezzo delleccitazione generale, scoprii l'alcol, dimenticando i severi avvertimenti e le riserve dei miei genitori a proposito del bere. Al momento stabilito, ci imbarcammo per Laggiù. Mi sentivo terribilmente solo, e ancora una volta ricorsi all'alcol.

Sbarcammo in Inghilterra. Visitai la cattedrale di Winchester. Emozionato, mi aggiravo nei dintorni. Un epitaffio su una vecchia pietra sepolcrale attir la mia attenzione. Vi si leggeva:

Qui riposa un granatiere dell'Hampshire che colse al volo la morte bevendo della piccola e fredda birra. Non si dimentica mai un buon soldato, che muoia ucciso dal moschetto o dal boccale. Sinistro avvertimento che, purtroppo, non presi sul serio.

A ventidue anni tornai finalmente a casa mia, reduce da una guerra straniera. Credevo di avere la stoffa di un capo; gli uomini della mia batteria non mi avevano forse dato un riconoscimento speciale? La mia attitudine a comandare, pensavo, mi avrebbe portato alla guida di grandi aziende che avrei amministrato con la più completa sicurezza.

Seguii dei corsi serali di diritto e trovai un posto come investigatore per una compagnia assicurativa. La corsa verso il successo era cominciata. Avrei potuto provare a tutti che ero qualcuno. Il mio lavoro mi condusse a Wall Street e a poco a poco mi interessai al mercato azionario. Molte persone vi avevano perso del denaro ma molte altre si erano arricchite. Perché non io? Così studiai economia politica e finanziaria, oltre al diritto. Alcolista potenziale qual ero, stavo quasi per fallire nel corso di diritto; durante uno degli ultimi esami ero troppo ubriaco per riuscire a scrivere o a pensare. Anche se non bevevo ancora di continuo, mia moglie cominciava a preoccuparsi. Facevamo delle lunghe conversazioni durante le quali cercavo di calmare le sue paure, dicendole che l'alcol aveva ispirato agli uomini di genio i più bei progetti, ai filosofi i più sublimi sistemi di pensiero.

Al momento in cui terminai il corso, sapevo che la mia professione non era il diritto. Ero preso dal turbine affascinante della Borsa. Gli speculatori e gli uomini daffari erano diventati i miei eroi. Con questa miscela di alcol e di speculazione, cominciai a forgiare l'arma che un giorno doveva rivoltarsi contro di me come un boomerang e che doveva lacerami profondamente. Vivendo modestamente, mia moglie e io avevamo risparmiato 1.000 dollari. Mi buttai su certe obbligazioni che acquistai a buon mercato e che erano poco apprezzate. Avevo giustamente immaginato che un giorno avrebbero raggiunto un valore elevato. Non ero riuscito a persuadere i miei amici, agenti di Borsa, a mandarmi a visitare le grandi imprese e le loro amministrazioni, tuttavia io e mia moglie decidemmo di andarci lo stesso. Mi ero costruito una teoria secondo la quale la gente perdeva i soldi in Borsa perché non conosceva l'andamento del mercato. Piu' tardi ho scoperto molte altre ragioni.

Lasciammo tutto e ci avviammo in motocicletta, con il sidecar carico di coperte, di una tenda, dei nostri abiti e di tre grossi volumi dell'annuario delle finanze. I nostri amici ci giudicarono completamente pazzi. Forse avevano ragione. Avevo azzeccato qualche speculazione sicché avevo del denaro, tuttavia dovemmo lavorare per circa un mese in una fattoria per non consumare il nostro gruzzolo. Fu quello il mio ultimo lavoro manuale onesto per molto tempo. In un anno attraversammo tutta la parte orientale degli Stati Uniti. Al termine di quel periodo, la relazione che feci a Wall Street mi procurò un posto e la possibilità di usare un grosso conto spese. Feci un'altra felice transazione con la quale guadagnai altro denaro al punto che nel corso di quellìanno avevamo a disposizione parecchie migliaia di dollari.

Per qualche anno la fortuna profuse soldi e successo sul mio cammino. Ero arrivato. Il mio intuito e le mie idee avevano un seguito e influenzavano mercati dove si maneggiavano milioni di dollari in valori. La grande ondata di prosperità dal 1925 al 1929 era al suo acme. Lalcol occupava una parte importante e piacevole nella mia vita. Si parlava a voce alta, il jazz sullo sfondo, nei locali dei quartieri alti; tutti spendevano migliaia di dollari e parlavano in termini di milioni. Chi voleva farsi beffe di me poteva andare al diavolo! Mi ero fatto un gran numero di amici dei tempi buoni.

Mi misi a bere ancora di pi, praticamente giorno e notte. I rimproveri dei miei amici sfociarono in liti e così mi ritrovai solo come un cane. Accaddero più volte delle scenate nel nostro sontuoso appartamento. Non avevo commesso nessuna infedeltà nei riguardi di mia moglie, perché la mia lealtà, aiutata qualche volta da un'estrema ubriachezza, mi aveva tenuto lontano da simili pasticci.

Nel 1929, fui preso dalla febbre del golf. Partimmo d'improvviso per la campagna, mia moglie era lì per applaudirmi quando avessi battuto Walter Hagen: l'alcol mi vinse prima che io potessi affrontare Walter. Cominciavo a sentirmi male al mattino e a tremare. Il golf mi permetteva di bere sia durante il giorno sia di notte. Provavo un immenso piacere a colpire la palla su quel prato così curato che mi aveva messo tanta soggezione quando ero giovane. Presi quell'abbronzatura impeccabile che si nota sul volto della gente perbene. Il banchiere del luogo mi guardava con divertito scetticismo ogni volta che versavo o ritiravo dei grossi assegni.

All'improvviso, nellottobre del 1929, si scatenò linferno sulla Borsa di New York. Alla fine di una di queste giornate tremende uscii dal bar dell'albergo per andare nell'ufficio di un'agenzia commerciale. Erano le otto, cinque ore dopo la chiusura del mercato. Il telegrafo trasmetteva ancora. I miei occhi erano fissi su una strisciolina della trasmittente che portava scritto XYZ-32. Quella stessa mattina era a 52. Ero rovinato, come molti dei miei amici. I giornali riportavano la cronaca di suicidi di uomini dell'alta finanza; ero disgustato, io non mi sarei dato per vinto. Ritornai al bar. I miei amici avevano perso parecchi milioni in dieci ore: e allora? L'indomani era un altro giorno. Mentre bevevo, mi tornò la vecchia, forte determinazione di vincere.

Il giorno dopo, in mattinata, telefonai a un mio amico di Montreal. Aveva ancora molto denaro e mi suggerì che sarebbe stato meglio per me andare in Canada. La primavera successiva vivevamo con la stessa sicurezza e larghezza di prima. Mi sentivo come Napoleone che ritorna dallisola d'Elba: per me niente Sant'Elena! Ma l'alcol mi riprese ancora e il mio generoso amico dovette pregarmi di andare via. Questa volta era la miseria per davvero.

Andammo a vivere presso i genitori di mia moglie. Trovai un lavoro, che poi persi in seguito a un litigio con un autista di taxi. Fortunatamente nessuno poteva prevedere che sarei rimasto senza impiego per cinque anni e quasi mai stanco di bere. Mia moglie accettò un posto in un grande magazzino,

ritornava la sera e mi trovava ubriaco. Ero diventato un fastidioso frequentatore di uffici e di agenzie finanziarie.

L'alcol non era più un lusso, era diventato una necessità. Il gin di bassa qualità, due bottiglie al giorno e forse tre, era ormai un'abitudine. Qualche volta una piccola transazione mi faceva guadagnare qualche centinaio di dollari coi quali pagavo i debiti al bar e ai ristoranti. Questo si ripeteva continuamente; poi ho cominciato a svegliarmi presto al mattino, tremando violentemente dalla testa ai piedi. Dovevo bere un bicchierino di gin e una mezza dozzina di bottiglie di birra prima di poter mangiare. Malgrado tutto, credevo ancora di dominare la situazione e alcuni periodi di astinenza dal bere ridavano speranza a mia moglie.

A poco a poco le cose peggioravano. La casa ci fu portata via dai creditori, mia suocera era morta, mia moglie e mio suocero si ammalarono.

Poi mi si presentò un affare promettente. Le azioni erano calate al punto più basso del 1932 e io ero riuscito in qualche modo a trovare alcuni compratori. Ne avrei ricavato un buon guadagno ma proprio allora presi una sbornia spaventosa e così svanì ogni speranza di fortuna.

Bisognava che smettessi di bere. Mi resi conto che non potevo permettermi di bere neppure un solo bicchiere. Era finita. Prima di allora avevo messo per iscritto una quantità di belle promesse, ma questa volta mia moglie si accorse, tutta felice, che ero deciso. E lo ero.

Qualche giorno dopo tornai a casa ubriaco fradicio: non avevo neanche lottato. Dov'era andato a finire il mio fermo proposito? Non lo sapevo. Non mi era neanche passato per la testa. Qualcuno mi aveva offerto un bicchiere e io avevo bevuto. Ero impazzito? Cominciavo a domandarmelo seriamente.

Presi ancora la stessa decisione e tentai di nuovo. Passò qualche tempo e la mia sicurezza cominciò a diventare eccessiva. Potevo passare davanti alle distillerie di gin e riderne! Mi sembrava un sogno.

Un giorno, entrai in un caffè per telefonare. Qualche minuto dopo davo dei pugni sul bancone, chiedendomi come fosse successo. Mentre il whisky arrivava alla testa, mi dicevo che mi sarei comportato meglio la prossima volta e che tanto valeva, ora, bere a sazietà. E' ciò che feci.

Non riuscirò mai a dimenticare il rimorso, l'orrore e la disperazione del mattino seguente. Non avevo più il coraggio di combattere. Ero completamente sbigottito e avevo la sensazione terribile di una disgrazia incombente. Non osavo neppure attraversare la strada per la paura di essere investito da qualche camion che circolava alle prime ore del mattino, quando era quasi buio. Un ristorante, aperto giorno e notte, mi dette loccasione di bere una dozzina di bicchieri di birra. I miei nervi irritati finirono per calmarsi. Un giornale del mattino m'informò che c'era stato ancora un crollo in Borsa: anch'io ero crollato. Il mercato si sarebbe ristabilito, io no. Questo pensiero era insopportabile. Dovevo uccidermi? No, non ora. Poi una specie di nebbia mi scese addosso: il gin avrebbe saputo come liquidarla. Due bottiglie... poi l'oblio.

La mente e il corpo sono dei meccanismi meravigliosi, perché i miei hanno sopportato quest'agonia per altri due anni. Qualche volta rubavo i soldi a mia moglie quando avvertivo il terrore e la follia che si provano al risveglio. Di nuovo vacillavo, tutto intontito, davanti a una finestra aperta o davanti all'armadio dei medicinali dove si trovava del veleno, maledicendomi per la mia debolezza. Poi venne la fuga dalla città alla campagna. E la fuga dalla campagna verso la città, quando mia moglie e io cercavamo una soluzione. In seguito è venuta la notte della tortura mentale e fisica; un tale inferno che temetti di gettarmi dalla finestra. Riuscii in qualche modo a trascinare il materasso al piano di sotto nel timore di gettarmi giù all'improvviso. Il medico mi somministrò un potente sedativo. Il giorno seguente mi ritrovai a bere gin e sedativi; questa combinazione mi portò a un punto critico tanto che la gente temette per la mia ragione, e anch'io. Non riuscivo a mangiare quasi nulla quando bevevo e il mio peso era sceso diciotto chili al di sotto del normale.

Mio cognato è medico e grazie alla sua bontà e a quella di mia madre, fui ricoverato in un famoso ospedale dove si riabilitano mentalmente e fisicamente gli alcolizzati. Dopo il cosiddetto trattamento alla belladonna il mio cervello si schiarì. L'idroterapia e alcuni esercizi mi aiutarono molto, ma la cosa più importante fu il conoscere un medico molto gentile che mi spiegò che ero stato seriamente ammalato fisicamente e mentalmente, anche se la malattia era dovuta in parte al mio egoismo e alla mia stupidità.

Mi consolò un poco l'apprendere che negli alcolisti la volontà di combattere il liquore è straordinariamente debole, anche se essa si dimostra ferma per altre cose. Questo spiegava il mio incredibile comportamento nei confronti del desiderio disperato che avevo di smettere di bere. Ora che avevo capito me stesso, lasciavo lospedale pieno di speranza. Durante tre o quattro mesi questa speranza si mantenne viva. Andavo in città regolarmente e guadagnavo perfino un po di soldi. Certamente questa era la soluzione: la conoscenza di sè.

Ma non era vero, perché giunse il giorno spaventoso in cui ripresi a bere. La mia salute fisica e morale, già in declino, crollò. Qualche tempo dopo tornai in ospedale. Era la fine, mi pareva che il sipario fosse calato. Mia moglie, estenuata e disperata, seppe che tutto sarebbe finito con un collasso cardiaco durante il delirium tremens oppure che il mio cervello si sarebbe spappolato, probabilmente entro l'anno. Ben presto le sarebbe toccato di portarmi al cimitero o al manicomio.

Non era necessario che qualcuno me lo dicesse. Lo sapevo e ne ero quasi felice. Fu un colpo durissimo per il mio orgoglio; io che avevo pensato tanto bene di me, dei miei talenti, della mia abilità nel superare tutti gli ostacoli, ero alla fine sconfitto. Ora me ne andavo verso l'ignoto a raggiungere quell'immensa schiera di ubriachi che mi avevano preceduto. Pensavo alla mia povera moglie. Eravamo stati felici, dopo tutto. Cosa non avrei dato per correggermi! Ma era troppo tardi.

Non ci sono parole per descrivere la solitudine e la disperazione che provai in questo pantano di autocommiserazione. Ero attorniato da sabbie mobili. Erano più forti di me, ero vinto, l'alcol era il mio tiranno.

Uscii dall'ospedale tremante e ridotto a pezzi. La paura mi impedì di bere per qualche tempo. Poi venne la follia insidiosa di quel primo bicchiere e durante la festa del "Giorno dell'Armistizio" dell'anno 1934 ripresi a bere. Tutti si rassegnarono all'idea che fosse necessario internarmi da qualche parte e che avrei fatto una fine miserevole. Com'è buio, prima dell'aurora! In verità era linizio della mia ultima sbronza. Stavo per essere catapultato, di lì a poco, in quella che a me piace chiamare la quarta dimensione dell'esistenza. Stavo per conoscere la felicità, la pace, la mia ragione d'esistere in un modo di vivere che, è incredibile, stava diventando sempre più meraviglioso.

Verso la fine di quel triste novembre, me ne stavo seduto in cucina e bevevo; pensavo, con una certa soddisfazione, che avevo del gin nascosto un po dovunque in casa, sufficiente per tutta la notte e l'indomani. Mia moglie era al lavoro. Mi chiedevo se avrei avuto il coraggio di nascondere una bottiglia di gin vicino alla testiera del letto: ne avrei avuto bisogno prima che facesse giorno.

Il mio fantasticare fu interrotto dallo squillare del telefono. Era la voce cara di un amico di collegio, che mi chiedeva se poteva venire. Era sobrio: da molti anni non lo ricordavo a New York così. Caddi dalle nuvole. Mi era stato detto che era stato ricoverato, su istanza del tribunale, per follia alcolica e mi chiedevo come avesse potuto uscirne. Beninteso, avrebbe mangiato con me e io avrei potuto bere senza timore con lui. Senza preoccuparmi del suo attuale benessere, non pensavo che a ritrovare lo spirito di altri giorni: una volta avevamo noleggiato un aereo per far baldoria! Il suo arrivo era come un'oasi in questo triste deserto di futilità. Un'oasi: la parola giusta! Ecco come sono i bevitori.

La porta si aprì ed egli era lì, ben rasato e raggiante. C'era qualcosa nei suoi occhi, era inspiegabilmente diverso. Che cosa era successo?

Gli porsi un bicchiere e lui lo rifiutò. Deluso, ma incuriosito, mi domandavo che cosa gli fosse capitato. Non era più lui. Allora, che cosa è successo?, gli chiesi.

Mi guardò dritto negli occhi; con semplicità, ma sorridendo, disse: Ho trovato la fede.

Ero confuso. Era dunque così: l'estate scorsa era pazzo per l'alcol, ora, sembrava pazzo per la religione. Aveva proprio quello sguardo che brilla. Sì, il mio vecchio compagno era proprio infervorato. Dio lo benedica, che predicasse pure! D'altra parte il mio gin sarebbe durato più a lungo del suo sermone. Ma non mi fece nessuna predica. In modo calmo mi raccontò che due persone si erano presentate al tribunale e avevano persuaso il giudice a sospendere la sentenza. Gli avevano parlato di un'idea religiosa semplicissima e di un programma di azione pratica. Erano passati due mesi da quel giorno e i risultati si vedevano a occhio nudo. Funzionava!

Era venuto a raccontarmi la sua esperienza, sempre che volessi ascoltarlo. Ero sconvolto ma interessato: ero interessato veramente. Non potevo non esserlo perché non avevo pi speranza.

Parlò per delle ore. Mi balzarono in mente i ricordi d'infanzia. Mi sembrava quasi di udire la voce tranquilla del predicatore che ascoltavo la domenica, seduto sul pendio della collina; rivedevo il tesserino con i fioretti da segnare e che non avevo mai segnato; lo sdegno pieno di bonarietà di mio nonno verso certi fedeli e verso certe loro azioni; la sua insistenza sul fatto che gli astri hanno veramente la loro armonia, ma lui negava al predicatore il diritto d'imporgli il suo modo di ascoltare quest'armonia; non aveva nessuna paura di parlare di ciò anche quando stava per morire. Questi ricordi emergevano dal passato. Un nodo mi chiudeva la gola.

Quel giorno del tempo di guerra, quando visitai la cattedrale di Winchester, mi tornò in mente ancora una volta.

Avevo sempre creduto in un Potere superiore a me stesso e ci avevo spesso pensato; non ero un ateo. Poche persone lo sono per davvero, perché ciò comporta una fede cieca nella strana asserzione che questo universo è venuto dal nulla e, senza uno scopo, va verso il nulla. I miei eroi dell'intelligenza - gli studiosi di chimica, di astronomia e perfino gli evoluzionisti - facevano intravedere la presenza operosa di forze e di leggi mirabili. Malgrado gli indizi contrari ero quasi certo che, in fondo a tutto, ci fossero un preciso proposito e un equilibrio straordinario. Come avrebbe potuto esserci una legge cos precisa e immutabile senza intelligenza? Non mi restava che credere semplicemente in uno Spirito Universale senza tempo né limiti. Non andavo più in là di questo.

Era a questo punto che mi separavo dai ministri e dalle religioni del mondo. Quando essi parlavano di un Dio che si occupava di me, che era amore, forza soprannaturale e provvidenza, ne restavo irritato e chiudevo il mio spirito a simili ipotesi.

Concedevo a Cristo di essere stato un grande uomo, che i discepoli non avevano fedelmente seguito. Il suo insegnamento morale: eccellente. Per quel che mi riguardava, avevo accettato ciò che mi sembrava conveniente e non troppo difficile; il resto, lo avevo rifiutato.

Ero disgustato nel constatare come le dispute religiose avessero prodotto guerre e avessero sconvolto società. A ben considerare le cose, dubitavo onestamente che le religioni dell'umanità avessero fatto del bene. Se dovevo trarre delle deduzioni da ciò che avevo visto in Europa e altrove, l'autorità di Dio sulle cose umane mi sembrava del tutto trascurabile e la Fraternità Umana una tragica farsa. Se da qualche parte c'era un Diavolo, sembrava essere il Padrone del Mondo e lo era certamente di me.

Ma il mio amico, seduto davanti a me, mi dichiarò di punto in bianco che Dio aveva fatto per lui ciò che lui non aveva potuto fare per se stesso. La sua volontà umana aveva fallito. I medici lo avevano definito incurabile. La società civile stava per rinchiuderlo. Come me egli aveva ammesso la sua disfatta completa. Proprio allora, effettivamente, era stato resuscitato dai morti, sollevato improvvisamente dal suo squallore a un livello di vita migliore di quanto non avesse mai avuto!

Questo potere proveniva da lui? Evidentemente, no. Non aveva mai posseduto un potere maggiore di quello che avevo io in quel momento, cioè nessuno.

Tutto ciò mi sconvolgeva. Cominciavo a credere che le persone religiose avessero ragione, dopo tutto. Avevo di fronte a me qualcosa che in un cuore umano aveva realizzato l'impossibile. Di colpo, dovetti rivedere le mie idee a proposito dei miracoli. Poco importava il passato ammuffito, avevo un miracolo vivente davanti a me, dall'altra parte della tavola, che mi sbatteva in faccia cose straordinarie.

Vidi che il mio amico era molto più che soltanto cambiato nell'intimo: viveva in una dimensione diversa.

Malgrado il suo esempio vivente, mi restavano ancora tracce dei vecchi pregiudizi. La parola Dio suscitava dentro di me ancora una certa antipatia. Questo sentimento diventava più forte quando pensavo che potesse esserci un Dio che si occupasse della mia persona. Non amavo questa idea. Potevo accettare certe concezioni come quella dell'Intelligenza Creatrice, dello Spirito Universale o dello Spirito della Natura ma mi opponevo all'idea di uno Zar dei Cieli, per quanto amabile potesse essere il Suo dominio. Ho incontrato in seguito molti uomini che provavano lo stesso sentimento.

Il mio amico suggerì ciò che allora sembrava un'idea nuova. Egli disse: Perché non scegli la tua concezione di Dio?.

Questa dichiarazione mi andò dritta al cuore. Fece sciogliere la montagna di ghiaccio intellettuale all'ombra della quale ero vissuto e avevo tremato per moltissimi anni. Ero finalmente in piedi, alla luce del sole.

Si trattava soltanto di essere disposto a credere in un Potere più grande di me. Non dovevo fare di più per cominciare. Capii che la crescita poteva partire da questo punto. Sulla base di una solida volontà, potevo costruire anch'io ciò che vedevo nel mio amico. Lo volevo? Sicuro che lo volevo!

E' in questo modo che ho acquistato la convinzione che Dio si occupa di noi uomini, quando lo desideriamo con tutto il cuore. Finalmente vedevo, sentivo, credevo. I veli dell'orgoglio e dei pregiudizi caddero dai miei occhi e mi apparve un nuovo mondo.

Il vero significato della mia esperienza nella Cattedrale brillò nel mio spirito. Per un breve attimo avevo avuto bisogno di Dio e lavevo desiderato. Avevo umilmente voluto Dio con me ed Egli era venuto. Ma ben presto il senso della Sua presenza era stato soffocato dalle mille voci del mondo, soprattutto da quelle che erano in me: e da allora era sempre stato così. Come ero stato cieco!

All'ospedale mi separai dall'alcol per l'ultima volta. Sembrava opportuno sottopormi a delle cure, perché mostravo dei chiari segni di delirium tremens. Là mi sono offerto umilmente a Dio, come Lo potevo concepire allora, perché facesse di me ciò che voleva. Mi sono messo senza alcuna riserva sotto le Sue cure e la Sua direzione. Per la prima volta ho ammesso che da me stesso non valevo nulla: che senza di Lui ero perduto. Mi sono messo spietatamente davanti ai miei peccati e ho cominciato a volere che il mio nuovo Amico li cancellasse completamente. Da allora non ho preso mai più un bicchiere di alcol.

Il mio compagno di scuola veniva a trovarmi e io lo mettevo al corrente di tutti i miei problemi e di tutte le mie miserie. Facemmo una lista di tutte le persone che avevo in qualche modo ferito o verso le quali nutrivo rancore. Mi dichiarai completamente disposto a incontrarle una per una e ad ammettere i miei torti. Non dovevo mai più criticarle. Dovevo fare tutto questo nel modo migliore possibile.

Dovevo verificare il mio modo di pensare alla luce della nuova presa di coscienza di Dio. Il senso comune sarebbe diventato così un senso al di fuori dell'ordinario. Nel dubbio, avrei dovuto aspettare serenamente, domandando solo consiglio e forza per regolare i miei problemi secondo la Sua volontà. Non avrei mai più dovuto pregare per me stesso, tranne che per domandare di diventare più utile al mio prossimo. Allora soltanto potevo aspettarmi di essere esaudito, ma questo sarebbe spesso accaduto.

Il mio amico mi promise che quando avessi fatto tutto ciò, un nuovo rapporto si sarebbe stabilito con il mio Creatore; che avrei posseduto i principi di un modo di vivere che avrebbe risolto tutti i miei problemi. Ciò che era essenziale era la fede nella potenza di Dio e una sufficiente dose di buona volontà, di onestà e di umiltà per consolidare e mantenere questo nuovo orientamento di vita.

Semplice, ma non facile; bisognava pagarne il prezzo, cioè la distruzione dell'egocentrismo. Dovevo abbandonare tutto al Padre della Luce che ci governa tutti.

Queste affermazioni erano rigorose e rivoluzionarie, ma quando le ho accettate in pieno, l'effetto è stato istantaneo. Provai un'impressione di vittoria, seguita da una pace e da una serenità che non avevo mai conosciuto. Fu una sicurezza completa. Mi sentivo sollevato, come se fossi stato investito dall'aria tonificante delle alte cime dei monti. Alla maggior parte degli uomini Dio si manifesta a poco a poco, ma il Suo impatto con me fu improvviso e profondo.

Agli inizi, provavo dei timori e ho chiamato il mio amico medico, per domandargli se ero ancora sano di mente. Ascoltò con meraviglia ciò che gli raccontavo.

Finalmente, scrollando il capo, mi disse: Ti è capitato qualcosa che non capisco. Ma fai bene ad aggrappartici. Qualsiasi cosa è meglio di come eri prima. Quel buon medico vede ora molte persone che hanno delle esperienze simili e ora sa che non si tratta di fantasticherie.

Quando ero all'ospedale, mi è accaduto di pensare che cerano migliaia di alcolisti disperati che forse sarebbero stati ben lieti di ricevere ciò che mi era stato regalato con tanta generosità. Forse potevo aiutarne alcuni. A loro volta, quelli potevano aiutarne degli altri.

Il mio amico aveva insistito sull'assoluta necessità di mettere in pratica questi principi in tutti gli aspetti della mia vita. Era soprattutto necessario tentare di aiutare altri alcolisti, come lui aveva fatto con me. La fede senza le opere è morta, diceva. Se ciò è vero, lo è doppiamente per gli alcolisti! Perché se un alcolista cessa di diventare migliore e di crescere nella sua vita spirituale con il lavoro e la dedizione verso gli altri, non riuscirà a passare attraverso le prove e le sicure depressioni che lo attendono. Se non si impegna in questa crescita interiore, si metterà sicuramente ancora a bere e se egli beve morirà certamente. Allora, la fede sarà morta davvero. Per noi, è così.

Mia moglie e io ci siamo gettati con entusiasmo sull'idea di aiutare altri alcolisti a risolvere le loro difficoltà. Fu un'ottima cosa, perché i miei compagni di affari di un tempo rimasero scettici nei miei confronti per un anno e mezzo e durante questo tempo non riuscii a trovare lavoro. Non stavo troppo bene e subivo l'assalto di ondate di autocommiserazione e risentimento. Tutto ciò mi portò quasi a ricadere nell'alcol, ma scoprii presto che, quando tutti gli altri mezzi non riuscivano, aiutare un altro alcolista salvava la situazione per quel giorno. Molte volte sono ritornato all'ospedale disperato ma, parlando con qualche alcolista, mi ritrovavo meravigliosamente risollevato e rimesso in piedi. E' un modo di vita che aiuta ad affrontare le situazioni difficili.

Abbiamo cominciato a farci un gran numero di veri amici e tra noi si è formata una fratellanza della quale è meraviglioso sentirsi parte. La gioia di vivere la possediamo realmente anche nelle prove e nelle difficoltà. Ho visto centinaia di famiglie prendere il cammino che veramente conduce a una meta; ho visto ricomporsi situazioni familiari realmente disperate; ho visto cancellarsi inimicizie e rancori di ogni sorta. Ho visto uomini uscire da ospedali psichiatrici e riprendere un posto importante nella vita della loro famiglia e del loro ambiente sociale. Uomini d'affari e dei professionisti hanno recuperato il loro rango sociale di una volta. Raramente abbiamo incontrato qualche difficoltà o problema tra noi che non sia stato facilmente superato. In una città dell'ovest e dintorni ci sono mille amici con le loro rispettive famiglie. Ci ritroviamo spesso in modo tale che i nuovi venuti possano trovare la fratellanza che cercano. A queste riunioni informali si possono spesso vedere dalle cinquanta alle duecento persone. Cresciamo di numero e d'importanza.

Un alcolizzato sempre ubriaco non è un essere amabile. I nostri sforzi per aiutare questi malati sono a volte ardui, comici o magari tragici. Un povero ragazzo si è suicidato in casa mia; non poteva o non voleva capire il nostro stile di vita.

In quello che noi facciamo c'è una grande gioia. Suppongo che alcuni resterebbero scandalizzati dalla nostra frivolezza e leggerezza che sono solo apparenti. Ma, proprio dietro questa facciata, c'è per noi una questione seria di vita o di morte. La fede deve essere attiva ventiquattr'ore su ventiquattro in noi e attraverso di noi, altrimenti periamo.

Quasi tutti noi pensiamo che non abbiamo più bisogno di cercare lUtopia. L'abbiamo a portata di mano qui e ora. Ogni giorno quella semplice conversazione del mio amico nella nostra cucina si spande e si moltiplica in un cerchio sempre più grande di pace sulla terra e di buona volontà verso gli uomini.

Bill W., cofondatore di A.A., è morto il 24 gennaio 1971.